Mi parve subito naturale trasferire il ragionamento sul "ricordo del passato", sul nostro modo spesso inobiettivo, per non dire reticente o bugiardo, di portare alla luce i nostri ricordi farcendoli di situazioni esagerate o omettendone volontariamente le parti meno interessanti o più scomode.
Fu proprio questo l'argomento della conversazione tra me e Giorgio mentre ci recavamo, in auto, sul set della prima giornata di riprese, ovvero un sentiero, da me casualmente scoperto, che costeggia il fiume Oglio nei dintorni di Paratico (provincia di Brescia) e interseca prima uno strano canale artificiane (utilizzato, credo, per il raffreddamento dei macchinari delle vicine industrie) e successivamente la ferrovia semi-dismessa Palazzolo-Paratico (che periodicamente viene utilizzata per la messa in funzione di suggestivi treni storici o a vapore).
L'idea che ne scaturì fu quella di dividere il corto in due parti. La prima l'avremmo girata in quel giorno, e riguardava una sorta di viaggio del protagonista all'interno del suo passato, o meglio della sua memoria, alla ricerca di "connessioni perdute" (cito volontariamente il lavoro, mai ultimato ma dal titolo sicuramente accattivante, di un mio compagno di università); la seconda, che avremmo girato in un secondo momento, avrebbe raccontato il suo tentativo di dare un senso a ciò che ha visto in questo viaggio, di mettere in ordine i "frammenti incoerenti" raccolti durante questa esperienza.
Si decise di dare in mano al protagonista una macchina fotografica (che provvidenzialmente avevamo preso con noi) e di fargli percorrere, uno dopo l'altro, tutte le possibili "strade" che la particolarissima ambientazione ci metteva a disposizione.
Ripresi Giorgio che cammina sulla ferrovia, Giorgio che percorre il canale (fortunatamente vuoto, perché nel mio precedente sopralluogo c'erano acqua di altezza superiore al metro e relativi pirla che vi si divertivano gettandovisi pericolosamente dal vicino "argine" e facendosi trasportare dalla corrente); Giorgio che si muove in riva in riva al fiume, eccetera... e in ogni situazione scatta una fotografia, come se non solo stesse cercando la via d'uscita da un tunnel, ma anche cercasse di fissare nella memoria ogni soluzione praticabile. Una specie di Pollicino post-moderno che cerca di ritrovare una strada segnata in maniera discontinua, imprecisa e continuamente fuorviante, che vaga alla ricerca della sua memoria su sentieri privi di connessioni reciproche. Può apparire ermetico, ne sono consapevole, ma l'idea di partenza era qualcosa del genere, un concetto sicuramente già abusato in filosofia e letteratura (e pure nel cinema, come ho da poco appreso grazie all'amico Chystian Ryder), ma di indubbio fascino.
La macchina super 8 del mio babbo (farcita delle 8 pile stilo occorrenti all'alimentazione del motore e dello zoom elettronico - che per l'epoca doveva essere un lusso), ferma da chissa quanti anni (per non dire decenni), si comportò egregiamente, fino a quando l'indicatore della metratura della pellicola cominciò a indicare che la cassetta era quasi finita, circa un minuto e mezzo prima dei cinque minuti di girato previsti.
Non mi ci volle molto per capire che i "cinque minuti previsti" erano "previsti" girando a 16 fotogrammi al secondo (ovvero il passo preferito dai videoamatori dell'epoca); mentre io (un po' ingenuamente, bisogna sottolinearlo) avevo optato per i molto più cinematografici 24 fotogrammi, che... che ovviamente consumavano un terzo in più della pellicola, a parità di tempo trascorso.
La "fine della pellicola", una specie di circostanza inesistente per chi è abituato a riempirsi le tasche di cassette Sony Premium da 3 euro (non ascoltate quelli che dicono che sono pessime, sono più o meno tutte uguali), ci costrinse a porre fine in anticipo ad una giornata di riprese comunque molto positiva.
Per la seconda parte del corto, di cui parlerò a breve, saremmo "tornati" (ritorno al futuro, !?) al digitale.
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